Galatina

GALATINA : DOVE PIETRO TROVO’ RIPOSO SU UNA PIETRA…


Siamo a Galatina, il cui nome dal sapore greco ci ricorda come il luogo sia parte di quella frazione del Salento noto come “Grecìa salentina”, dove ancora oggi si parla il cosiddetto  “grico”, ovvero un dialetto che deriva dalla lingua parlata dai coloni greco-bizantini che si stanziarono qui  già a partire dall’Alto Medioevo.
In realtà, però, sin dal Medioevo e fino all’Unità d’Italia, il nome completo del paese era “San Pietro in Galatina”, in quanto, secondo la tradizione, Pietro sarebbe da qui transitato durante il suo viaggio verso Roma, tanto che le chiavi pontificie, simbolo del primo Papa della Storia, sovrastano lo stemma civico del Paese. Furono i pricipi Del Balzo Orsini, a cui si deve la costruzione della magnifica Basilica di Santa Caterina, ad ottenere dal Papa l’autorizzazione ad usare le chiavi pontificie nello stemma civico.
La tradizione (orale, non documentata da antiche fonti scritte) narra di come Pietro, colto da stanchezza,  trovasse riposo dalla fatica del viaggio sedendosi su un masso; e quella pietra, simbolo del suo passaggio in queste terre, sarebbe stata poi  custodita in un tempio a lui dedicato, la Chiesa Madre dedicata ai SS. Pietro e Paolo.
L’impianto originario della Chiesa risalirebbe al XIV secolo, forse in origine dedicato all’Immacolata,  e per tutto il medioevo in essa si sarebbe officiato il rito greco. L’edificio ha subito, però, un totale rifacimento nei secoli del Barocco, tra il seicento e settecento. La facciata, opera di Giuseppe Zimbalo detto “lo Zingarello”, uno dei più celebri protagonisti del Barocco salentino, mostra tra le numerose statue che la adornano, a destra del portale centrale, la statua del Principe degli Apostoli cui la Chiesa è dedicata.
All’interno, tra altari barocchi e tele di scuola napoletana, spicca alla sinistra del transetto, nel Cappellone del SS. Sacramento, la statua marmorea dell’Immacolata, attribuita al grande Giuseppe Sammartino. L’interno si caratterizza per numerosi dipinti petrini; nel controsoffitto della navata centrale, il ciclo di affreschi opera del napoletano Vincenzo Paliotti della seconda metà del XIX secolo, con le Storie della Vita di San Pietro. Gli episodi raffigurati sono: San Pietro Liberato dal Carcere di Antiochia, San Pietro alla Porta Speciosa del Tempio, Gesù da a San Pietro le Chiavi del Regno, Glorificazione di San Pietro.
Nella seconda cappella della navata sinistra, si trova la Crocefissione di San Pietro, opera seicentesca di Pietro Picca. Sulla controfacciata, invece, si può ammirare al centro la Lavanda dei Piedi di Serafino Ulmo, con a destra Pietro che cammina sulle acque e a sinistra il Quo Vadis, Domine?, di autore ignoto. Nella prima cappella della navata destra, si nota Pietro con le chiavi nel dipinto dell’Assunzione di Maria, unica tela restaurata insieme alla Crocefissione di Pietro. Alle spalle dell’altare, nel coro, sulla parete destra, un grande dipinto su tela con Il Primato di Pietro, nel quale Cristo consegna all’Apostolo le chiavi del Regno dei Cieli. Dal coro è possibile osservare, nei pennacchi della semicupola absidale, due tondi, uno con San Pietro e l’altro con San Paolo.
Simmetricamente rispetto al Cappellone, sul lato destro,  si apre la Cappella dedicata a San Pietro; essa custodisce le statue policrome degli apostoli Pietro (in pietra) e Paolo (in cartapesta), quest’ultima proveniente dalla vicina Cappella di San Paolo delle “tarantate”, nella tipica iconografia con spada e serpente. La statua in pietra del Principe degli Apostoli è opera del leccese Giuseppe Cino (XVII secolo), in cui si notano gli occhi in vetro che conferiscono particolare espressività all’opera. Oltre alle statue dei due Apostoli, nella Cappella si conserva il mezzobusto/reliquiario argenteo del Primo Papa; il mezzobusto custodisce una reliquia del santo, e fu un dono del Vescovo Mongiò (XVII secolo), membro di una delle più illustri famiglie della nobiltà galatinese. Secondo la leggenda, nei periodi di siccità, il mezzobusto veniva portato all’esterno e gli si mettevano in bocca delle alici salate. Simbolicamente si cercava di far venir sete al Santo, in modo che facesse piovere, placando così la propria sete ed il bisogno d’aqua del popolo.
Di fronte al mezzobusto in argento, nella  Cappella si conserva il masso dove secondo la tradizione il Principe degli Apostoli si sarebbe riposato una volta giunto a Galatina nel suo viaggio verso Roma. La reliquia è protetta da una grata e sormontata da un’epigrafe marmorea commemorativa di tale tradizione petrina. Il masso rinvenuto nelle campagne galatinesi fu portato nella Chiesa Madre per volontà del Vescovo di Otranto Gabriele Adarso de Sant’Ander, grande promotore del culto petrino, alla metà circa del XVII secolo. Il Sant’Ander rese Galatina una sorta di succursale episcopale di Otranto, più al sicuro dal pericolo turco rispetto alla città costiera idruntina, elevando la Chiesa Madre a Colleggiata.
Sul luogo in cui il masso fu rinvenuto, oggi è possibile ammirare nella campagna di Galatina, in Contrada San Vito , un’Edicola affrescata con l’immagine di San Pietro. Nel basamento dell’edicola, un’epigrafe con l’anno 1665.
La statua in cartapesta di San Paolo, custodita nella Chiesa Madre, proviene dalla vicina Cappella di San Paolo. Ubicata sotto il settecentesco Palazzo Congedo in Via Garibaldi, la Capella di San Paolo è nota anche come Cappella delle Tarantate, per via del fatto che, dal medioevo e sino alla fine degli anni cinquanta del XX secolo, è stata teatro dei riti arcaici di quei  fenomeni misteriosi legati al "tarantismo”, dove la religiosità popolare si univa ad antiche danze e credenze pagane, con una processione di fedeli che accompagnava le tarantate al suono incessante dei tamburelli la notte del 29 Giugno, affinchè gli apostoli le guarissero da quel morbo misterico e misterioso. Dal punto di vista artistico, la cappella è costituita da aula unica con volta alla leccese, che ospita un altare settecentesco con una tela ormai poco leggibile  di Francesco Saverio Lillo,  raffigurante San Paolo. L’Apostolo delle genti ha in mano una spada, suo tipico attributo iconografico, con le figure di un uomo e di una donna ed un angelo che sostiene un libro. Ancora oggi, in occasione della festività dei Ss. Pietro e Paolo (29 Giugno), la Cappella è meta della curiosità di molti turisti e della devozione di qualche presunta tarantolata.
Tornando alle tarantate, le donne, che erano state vittime del morso della tarantola, convenivano in questa cappella da tutto il Salento (secondo la tradizione invece Galatina era immune dal fenomeno, forse proprio a causa della protezione degli Apostoli Pietro e Paolo), chiedevano la grazia al santo, pregando e bevendo l'acqua del pozzo attiguo alla chiesetta, oppure per ringraziare di un’avvenuta guarigione ottenuta in passato dal  morso. Il pozzo, sormontato da un affresco di S.Paolo, è visibile nella corte del Palazzo. Secondo la leggenda, a questo pozzo San Paolo si sarebbe abbeverato quando giunse nel Salento, chiedendo ospitalità nei suoi pressi. Il rito delle tarantate prevedeva che, dopo aver effettuato un esorcismo musicale esibendosi in balli frenetici al suono dei tamburelli ed una volta ottenuto lo stato di grazia (o la guarigione), esse si trasferissero nella vicina Chiesa Matrice dei SS. Pietro e Paolo, con forme e pratiche devozionali di ringraziamento, che potevano sconfinare in ancestrali forme di antichi culti fino a rasentare vere e proprie forme di isteria e di idolatria.
Il legame tra tarantismo e San Paolo pare sia dovuto alla tradizione secondo la quale l’Apostolo fosse sopravvissuto al morso di un sepente sull’isola di Malta, divenendo, così, una sorta di taumaturgo contro ogni sorta di veleno, tarantola compresa. La danza diveniva strumento di liberazione, forse contro ogni forma di tabù, frustazione, oppressione e repressione, simbolicamente rappresentati dal morso del ragno. Il racconto della mietitrice morsa nella calura asfissiante durante la mietitura, che solo nella danza sfrenata ed ipnotica riusciva ad espellere il veleno, è puro mito; solo dopo diverse ore, esaurite le energie la donna poteva concedersi di cadere a terra stremata, dopo il rito purificatorio, definitivamente libera dal veleno.