TARANTO: LE TAPPE DI PIETRO E DEL SUO DISCEPOLO MARCO
Siamo a Taranto, l’antica Taras greca, città dei due mari e dal porto sicuro, crocevia di popoli e navigatori… e dal mare, secondo la tradizione, quando a Roma regnava l’Imperatore Claudio, qui giunsero l’Apostolo Pietro ed il suo discepolo Marco l’evangelista. Approdarono sulla maggiore delle isole Cheradi che al largo fronteggiavano la città che con i Romani era divenuta Tarentum, inginocchiandosi e ringraziando il Signore per l’approdo raggiunto. Secondo la leggenda , un’impronta sarebbe stata così lasciata sulla pietra toccata dalle ginocchia del primo Papa, e quell’antica isola sarebbe stata battezzata, in seguito, come Isola di San Pietro. La tradizione vuole che furono i veneziani, devoti di San Marco, a portarsi via il masso con l’impronta lasciata da Pietro. Le isole Cheradi, citate già da Tucidide nel V sec. a .C. e definite dal commentatore latino Servio le Electrides, ovvero “le splendenti”, secondo l’interpretazione dell’illustre letterato tarantino Tommaso Niccolo d’Aquino, sono un piccolo arcipelago di tre isole (San Pietro, San Paolo e San Nicolicchio), nel Mar Grande di Taranto, in cui l’isola maggiore ha assunto diversi nomi prima della definitiva dedica al Principe degli Apostoli. Phobea, Insula Magna, Santa Pelagia sono stati i nomi precedenti dell’isola petrina, a partire dall’antichità fino alla prima cristianizzazione delle isole e alla fondazione di cenobi basiliani sulle loro terre, come il Coenobium S.Petri Apostoli in Insula Magna documentato in età medievale.
La tradizione petrina di Taranto risale al medioevo, trovando terreno fertile nell’antichità della comunità cristiana tarantina e nella presenza della Via Appia, che rendeva Taranto uno scalo portuale ideale in un viaggio verso Roma. Secondo la tradizione, che si basa su uno scritto agiografico del IX-X secolo, la Historia Sancti Petri ripresa nel XVI secolo dallo scrittore Giovan Giovine, prima di riprendere il cammino verso la città fondata da Romolo, Pietro e Marco, dopo il primo approdo sull’isola maggiore, decisero di entrare nel porto ed approdare presso le sue sponde. Qui il Principe degli Apostoli si sarebbe imbattuto in una fonte d’acqua dedicata ad Helios, il Sole.. con il segno della croce avrebbe fatto crollare la colossale statua che dominava la fonte, dedicando quest’ultima a S. Giovanni Battista e battezzando i tarantini. Oggi quel luogo è noto come Cripta del Redentore, un’antica tomba pagana, forse di età romana imperiale (I-II secolo), divenuta chiesa durante il medioevo, forse proprio a causa di quella fonte d’acqua e della leggenda petrina ad essa dedicata. Splendidi sono gli affreschi che adornano la cripta, databili al XII secolo, con il Cristo Pantocratore nell’abside, forse una volta fronteggiato dal dipinto di Pietro, oggi purtroppo scomparso. Il nome Cripta del Redentore, con cui oggi è noto il sito, risale all’autore della scoperta, l’archeologo Luigi Viola, fondatore del Museo Nazionale Archeologico di Taranto, che nel 1899 scoprì per caso la cripta con l’affresco del Cristo e vide in questo un segno divino di speranza e redenzione, in un momento particolarmente difficile della sua vita.
Spostandosi sulla sponda opposta del Mar Piccolo si giunge presso il fiume Cervaro. Secondo la tradizione, infatti, dopo aver fatto crollare il colosso di Helios, Pietro e Marco attraversarono il mare chiuso per approdare in località Cervaricium, presso i frutteti del ricco patrizio romano Eucadio. Avrebbero guarito il custode di quei frutteti, lo storpio Amasiano, convertendolo. Amasiano, alla partenza di Pietro, sarebbe stato nominato da Marco, su ordine del maestro, primo vescovo di Taranto. Marco avrebbe anche salvato dalla possessione demoniaca la figlia di Eucadio, il quale si convertì, facendo sì che i tarantini costruissero templi dedicati agli apostoli in luogo di quelli pagani. Poco distante dal fiume Cervaro sorge la Masseria S. Pietro Marrese, una masseria che tra il ‘500 e l’800 ha inglobato i resti di un convento medievale, con annessa la splendida Basilica dei SS. Apostoli Pietro e Andrea, il cui nome ci ricorda il passaggio da questi luoghi del Principe degli Apostoli. Resti di una grande villa romana e di un acquedotto romano ipogeo, ci portano alla mente il ricco Eucadio ed il suo servitore Amasiano, che in questi luoghi furono convertiti. La basilica, databile al X-XII secolo, presenta una abside centrale affrescata con una teoria di Santi con al centro la Vergine col Bambino, mentre sotto di essa si apre la cripta, di origini medievale ma che ha intercettato due probabili cisterne a campana e l’acquedotto di età romana.
Dopo la conversione di Eucadio ed Amasiano, Pietro rientrò in città dalla Porta Maggiore dell’antica Acropoli, probabilmente ubicata dove oggi si apre il Canale Navigabile, all’altezza dell’antico ponte di Porta Lecce. I marmi di quella che era l’Acropoli greca sarebbero stati reimpiegati in una Chiesa dedicata al Principe degli Apostoli: la Chiesa di San Pietro alla Porta, che gli spagnoli abbatterono nel XVI secolo per ampliare le fortificazioni cittadine. Di quei marmi si è salvato solo il cippo d’altare dove, secondo la tradizione, Pietro avrebbe celebrato la prima messa tarantina. Oggi quell’altare è conservato presso la Chiesa del Carmine. E’ la comlumna Sancti Petri, la colonna petrina custodita in una nicchia, unitamente ad un antico dipinto su legno che ritrae San Pietro e proveniente dalla stessa chiesa scomparsa. Oggi la Chiesa del Carmine è famosa per la processione dei sacri Misteri, che da quasi tre secoli percorre le strade cittadine nella notte del Venerdì Santo, la notte in cui Cristo fu tradito ed arrestato, dopo essere stato rinnegato tre volte dallo stesso Pietro. Una processione che testimonia la fede profonda dei tarantini, che ha radici antichissime, risalenti al giorno in cui il primo Papa della Storia sarebbe qui giunto durante il suo viaggio verso Roma.
Segni della tradizione petrina tarantina sono sparsi nella splendida Cattedrale di San Cataldo, dalle statue di Pietro e Marco sulla facciata settecentesca di Mauro Manieri, ai loro affreschi ottocenteschi opera di Domenico Torti nel vestibolo. Un affresco di Pietro è presente nella cripta, la parte più antica della cattedrale, quella risalente alla costruzione bizantina, mentre una sua statua adorna il sontuoso cappellone barocco di San Cataldo, il vescovo irlandese giunto a Taranto per proseguire la missione pastorale avviata da Pietro e Marco. Il grande dipinto seicentesco, opera del pittore martinese Caramia, in alto nel vestibolo, ci ricorda tale tradizione, con S. Cataldo tra i due apostoli mentre in alto, a sinistra, una statua colossale cade in frantumi… è il colosso di Helios della leggenda petrina, quello presso su cui sarebbe in seguito sorta la Cripta del Redentore.
Il legame con San Pietro della Città dei due Mari è simbolicamente rappresentato anche dall’altro grande tempio cristiano che sorge in quella che era l’Acropoli greca, ovvero nella Città Vecchia. Si tratta del complesso di San Domenico, che sorge sui resti di un tempio greco, visibili dal chiostro dell’ex convento domenicano, oggi sede della Soprintendenza Archeologica. La trecentesca chiesa di San Domenico, oggi nota per la suggestiva processione dell’Addolorata che scende dal suo settecentesco scalone a tenaglia la notte del Giovedì Santo, sorse però già intorno al IX-X secolo con l’appellativo di San Pietro Imperiale. Le statue litiche di San Pietro e San Paolo si trovano, infatti, all’interno della chiesa, la quale che si affaccia su quello che ancora oggi è noto come Vico San Pietro Imperiale.